Cambridge Analytica, due riflessioni a freddo

Come giornali e blog si sono concentrati soltanto sul ruolo di Facebook ignorando quello dell’utente\consumatore

Massimiliano Pennone
mediabias

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Due riflessioni a freddo sul caso Cambridge Analytica su due aspetti sottovalutati se non del tutto ignorati dalla stampa che si è occupata del tema:

i) Non è detto che gli utenti di Facebook interpretino tutti la condotta di Cambridge Analitica come fraudolenta e lesiva della loro privacy e della loro persona. A lungo termine sarebbe interessante valutare il numero degli user che continuano ad accettare policy d’uso ambigue o potenzialmente “pericolose” su Facebook e su altre piattaforme (e ce ne sono). Ad esempio, non è ancora chiaro perché la app di Facebook scali addirittura posizioni in classifica fra quelle più scaricate (qualcuno dice che è perché gli utenti vogliono disiscriversi o cancellare l’accesso alle terze parti), mentre il titolo crolla in borsa. A proposito: la discesa di un titolo non significa automaticamente che la gente si sia stufata di quel prodotto.

il punto di vista del consumatore è stato ignorato nella maggior parte degli articoli

Ancora più interessante sarebbe infine intervistare gli utenti di Facebook chiedendo loro quanto gli importa realmente dei dati (big ma non smart, anonimi o personali in misure variabili — dettagli questi fondamentali e poco esplorati dai giornali) copiati (non rubati!) dai vari servizi. Qualunque siano i risultati dell’indagine, anche se venisse fatta domani e relativamente al caso Cambridge Analytica, sfido a trovare un numero significativo di utenti che ammettano — dopo avergli spiegato che sono stati loro stessi ad accettare il “passaggio” dei dati — di esserci cascati come dei fessi spuntando il consenso informato. In generale, questo aspetto — ovvero il punto di vista del consumatore, più che dell’utente — è stato ignorato nella maggior parte degli articoli degli ultimi giorni.

ii) Allo stesso modo penso che la natura umana e la tendenza delle persone a cercare di far bella figura con l’intervistatore renderanno ancora più ardua l’interessantissima ricerca sul ruolo degli algoritmi, dei news feed e delle piattaforme social nella costruzione dell’opinione e del consenso elettorale. Trovare qualcuno che ammetta di aver votato Trump (o anche in Cinque Stelle) perché convinto da una dark ad o da un meme è il sogno di tanti tecno catastrofisti, ma caso più unico che raro (e quindi anche statisticamente non significativo). Anche qui, le inchieste sul tema hanno ignorato le possibilità di indagine in questo senso: l’eventuale nesso di causalità fra ciò che compare sulle bacheche e il comportamento nel segreto dell’urna sembra ancora qualcosa che difficilmente riesce ad essere esplorato al di fuori dell’accademia e di Wall Street; di inchieste giornalistiche che abbiano provato a studiare e capire anzitutto l’elettore piuttosto che il suo news feed ce ne sono al momento veramente poche.

trovare qualcuno che ammetta di aver votato Trump convinto da un meme è caso più unico che raro

Così come pochissimi sono stati quei giornali che hanno provato a sollevare dubbi riguardo le tecniche utilizzate fino ad oggi per indagare il fenomeno delle filter bubble o che hanno provato a tracciare una strada nuova che metta al centro l’elettore nella sua interezza (e nell’interezza quindi della sua intelligenza), senza considerarlo una mera proiezione del suo smartphone.

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